Nel prossimo anno scolastico, Maria Chiara Rossi terrà un corso sul tema: “La città ci parla. Cicli figurativi ed assetto urbano a Venezia”

 

 

 

* l’articolo è apparso la prima volta in “Casinò di Venezia. Rivista di attualità e cultura”, anno I, n.1, maggio 2002

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

19 02

Pietro Longhi
Il gioco della Pentola 1744 ca
Washington National Gallery

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

19 03

Pietro Longhi,
Il concertino,
Venezia, Gallerie dell’Accademia

19 03

Pietro Longhi, Lo svenimento
(La partita a carte interrotta),
Washington, National Gallery of Art

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Maria Chiara Rossi

 

Passatempi e giochi
nella pittura veneziana
del Settecento*

 

19 01

Giambattista Tiepolo, Morte dí Giacinto, (1752-53 ca)
Fundación Colección Thyssen-Bornemisza, Madrid

Quando il sentiero percorso dagli dei incrocia quello degli uomini, sono quest’ultimi a pagarne le più amare conseguenze. Così capitò al principe spartano Giacinto che amato dal dio del Sole, Apollo, giocò con lui al lancio del disco. È lo scrittore latino Ovidio a raccontarci nelle Metamorfosi (libro x, vv. 162-219) come Apollo, vinto d’amore e dimentico oramai della cetra, condivideva le sue giornale con il giovane nobile finché “tra una notte finita e una in arrivo” gli propose una gara di lancio del disco. Con grande forza il dio fece volare altissimo il suo squarciando le nubi, ma Giacinto cercò ugualmente di riprenderlo e, colpito accidentalmente in fronte dal disco rimbalzato sul duro terreno, morì lasciando nella disperazione Apollo che si riteneva responsabile della disgraziata vicenda. Ma gli dei greci trovano sempre la possibilità di una ricompensa e così dal sangue del principe ferito a morte spuntarono e presero forma fiori simili a gigli di color porpora sui quali Apollo vergò di sua mano le lettere “AI AI” per esprimere il suo cordoglio: in questo modo il giovane fu ricordato per sempre.
Giambattista Tiepolo (Venezia 1696-Madrid 1770), forse il più grande pittore veneto del Settecento, nel dipingere la Morte di Giacinto (Madrid, collezione Thyssen-Bornemisza) attualizza il lancio del disco trasformandolo in uno jeu de paume, l’antenato del nostro gioco del tennis, individuando in una palla troppo violentemente tirata la causa della morte dello sfortunato giovane: certo è difficile crederci osservando nella tela dipinta con colori preziosarnente tersi e trasparenti l’atletica stazza di Giacinto e la piccola racchetta da tennis con vicino le due palline, probabili assassine.
Nella giocosa società veneziana del Settecento era sicuramente gradita un’interpretazione del mito più gustosarnente mondana piuttosto che eroicarnente legata agli dei dell’Olimpo: in questo secolo la passione per il gioco, sempre presente nella storia della città lagunare, diventa incontenibile. Persino i passatempi infantili allietano gli adulti, come si vede ne Il gioco della pentola (Washington, National Gallery of Art, collezione Kress) dipinto da Pietro Falca (Venezia, 1701-1785), più conosciuto col soprannome famigliare di Longhi, acuto osservatore e testimone della vita veneziana settecentesca. Il pittore ritrae, in un salotto aristocratico, un giovane cavaliere bendato e mascherato con un grembiale di damasco mentre cerca di colpire col bastone una pentola di terracotta che contiene il premio. Altri quattro personaggi, due dame e due patrizi, legati tra loro dai gesti delle mani e da maliziosi sguardi complici, assistono alla vivace scena resa con colori luminosi e una pennellata fluente e vibrante.
Naturalmente altri sono i divertimenti più diffusi tra i veneziani che tutti si dimostrano appassionati di giochi vari d’azzardo, dalla tombola al lotto, dai dadi alle carte, e per giocare si ritrovano nei ridotti, nei casini, nei caffè, nelle osterie, in piazzetta San Marco tra le colonne di Marco e Todaro e persino nella basilica marciana.
D’altro canto Giulio Strozzi, letterato del Seicento, giustificava la popolarità in città dei giochi di carte collocandone in tempi lontani e leggendari l’origine: sarebbe stato addirittura il barbaro Attila a diffonderne la moda in laguna. Infatti, volendo conquistare Venezia, egli fece ricorso alle arti magiche della maga Irene che insegnò ai giovani veneziani “un gioco novello e di Fortuna” che presto contagiò tutti indebolendoli e distraendoli dalla guerra.
È facile comprendere come in una città godereccia quale era Venezia, una città di mare e di traffici con l’Oriente, in cui il denaro circolava in continuazione e in grandi quantità, le qualità caratteriali che avevano reso ricchi i mercanti veneziani -intelligenza, intraprendenza e fortuna- nutrissero la voglia di godere, spendere e divertirsi rischiando. Fino al Trecento le carte da gioco erano addirittura dipinte a mano una per una; poi col passare del tempo si cominciò a riprodurle con incisioni xilografiche e stampigliature su cartoni colorati.
Successivamente tra i nobili si diffuse la moda di personalizzare i mazzi di carte sulle quali si faceva riprodurre, oltre al nome e al cognome, persino lo stemma nobiliare. La domanda di mercato rese il mestiere dei maestri cartoleri estremamente importante tanto da essere affiliato alla più importante e potente Arte dei Dipintori, ma molto presto questi artigiani risentirono della concorrenza straniera: l’attività cadde progressivamente in declino tanto che alla metà del Settecento a Venezia risultavano impiegate in questo settore solamente 79 persone!
Ciò accadeva proprio mentre il gioco impazzava in ogni sua forma in città, forse perché come affermava il poeta veneziano Giorgio Baffo “Ghe vuol dei passatempi in le città /Che ‘l popolo cussì se divertissa /E no senta ‘l so stato el desperà”. Infatti alla fine del secolo l’indipendenza millenaria dello stato veneziano cesserà per sempre. Nelle testimonianze pittoriche coeve non si coglie però traccia di questo sentimento di fine imminente ed ecco I giocatori al Ridotto (Venezia, collezione privata) affollare ogni sera numerosi il luogo dei divertimenti.
Nella tela attribuita a Lorenzo Tiepolo (Venezia, 1736-Humera, Madrid 1776), il più giovane dei dieci figli nati dal matrimonio di Giambattista, vediamo un nobile in parrucca, forse Alvise IV Foscari, mentre tiene banco al “faraone” intento a giocare con un turco riccamente vestito con abiti di velluto bordati di pelliccia e turbante d’ordinanza chiuso da un fermaglio di perle. Assiste alla scena una dama in maschera e sullo sfondo s’intravede un vecchio inforcare gli occhiali per meglio accarezzare la giovane mascherina, mentre in primo piano una nobildonna sta per gustare una tazza di cioccolata. In questo bel dipinto Lorenzo si libera in parte dall’eredità paterna aggiornandone gli insegnamenti con una resa più realistica dei personaggi ritratti, prediligendo una luce fredda e un uso del colore meno sontuoso. Oltre che nei luoghi pubblici si poteva giocare anche nelle case private: quale migliore passatempo di una bella partita a carte per ingannare la noia durante Il concertino (Venezia. Gallerie dell’Accademia)?
È ancora Pietro Longhi a renderci con un sorriso bonario l’insolita riunione in un palazzo nobiliare di tre violinisti che improvvisano un’esibizione musicale -il più attento ascoltatore è un cagnolino accovacciato sul tabouret mentre a sinistra due religiosi giocano a carte, e un terzo li osserva, del tutto indifferenti alla musica. Spesso nei dipinti di Longhi la flgura del reìigioso è evocata in una dimensione mondana, talvolta licenziosa, con damine da educare e osservare con occhiate maìiziose. Nel Concertino la presenza femminile, anche se non direttamente richiamata, è suggerita dal gioiello e dal velo appoggiati sulla sedia.
Sempre in un salotto patrizio Pietro Longhi ambienta Lo svenimento (La partita a carte interrotta) dove si possono vedere gli effetti che talvolta produce il gioco: la dama è svenuta ed è sdraiata su una poltrona con la veste slacciata per riprendere respiro, mentre il tavolino per il gioco, decorato secondo la moda del tempo in lacca con cineserie, è stato rovesciato facendo cadere in terra carte e monete. La giovane viene assistita da una donna più anziana che le offre i sali per farla rinvenire, mentre un gentiluomo approfitta della situazione per sbirciare nella scollatura e il marito, o più probabilmente il cicisbeo, le tiene amorevolmente il braccio. A cosa è dovuto il malore? All’improvvisa comparsa dell’anziano cavaliere col parruccone, il marito o forse il genitore, che con la mano destra alzata accompagna un rimprovero cui la giovane si sottrae con il finto svenimento. Longhi introduce nel suo dipinto un sorridente elemento di giudizio vicino all’atteggiamento più seriamente moralistico che Carlo Goldoni trasmette ai personaggi delle sue commedie. Il commediografo veneziano dedica addirittura un suo lavoro a Il Giocatore ricordando che “Quel che vien de tinche tanche, se ne va de ninche nanche”, ma che il gioco, seppur un vizio, è sempre un gran vizio.
Complessivamente i pittori veneziani del Settecento si occuparono poco della rappresentazione dei giochi, probabilmente perché i committenti non amavano farsi rappresentare in attività ritenute poco decorose per la loro vita pubblica: nonostante fossero tutti accaniti e appassionati giocatori d’azzardo era preferibile farsi ricordare come ammiragli eroici e magistrati integerrimi.